17/02/2002 - Guerra all’epatite C con i soldi americani
L’equipe guidata da Paolo La Colla scopre una nuova molecola
Sopra l’armadio dello studio - una scalinata, una grande vetrata, piano rialzato del laboratorio di Microbiologia - c’è una scimmia. Pelliccia di peluche e occhi a bottoncino, un’etichetta sulla pancia, come una provetta nel frigo giù in basso, la scimmia è un regalo degli americani. Ricordo del gruppo di ricerca, trofeo di quegli studi del composto flavivirus sulla scimmia, monito a continuare, perché quella è la strada giusta per combattere l’epatite C. Paolo La Colla lo sa bene: la strada l’ha tracciata lui, i suoi ricercatori lavorano ogni giorno, due turni dalle 7 alle 14 e dalle 14 alle 21. Lì, alla Cittadella universitaria, silicon valley nel deserto di ovili e mobilifici tra Sestu e Monserrato, nel dipartimento di Biologia sperimentale, divisione di Microbiologia, non c’è posto per tutti. Poco importa che l’equipe di Paolo La Colla lavori a una delle scoperte più importanti per la storia della medicina contemporanea. L’Università di Cagliari sta a guardare: tanto, i soldi li mettono gli americani. Cioé i soci della Novirio Pharmaceuticals Limited, società biofarmaceutica che a giorni verrà quotata in borsa, e lavora con l’obiettivo di portare avanti la scoperta, lo sviluppo e la commercializzazione di terapie innovative per le più gravi malattie da virus. Lo sviluppo clinico e le operazioni di marketing della società si svolgono a Cambridge, Massachusetts, e le attività di drug discovery sono condotte tra gli Stati Uniti, Montpellier e Cagliari. Dove, a coordinare la ricerca, c’è proprio il professor Paolo La Colla. Lui in Sardegna, Gilles Gosselin e Bruno Canard in Francia, Frank Seela in Germania, Silvio Spadari a Pavia, e Martin Bryant in America sono gli scienziati che stanno ricercando nuovi antivirali per la terapia delle infezioni da flavivirus: medicine per guarire da epatite C, virus dengue, virus west nile.
Cosa significa? Paolo La Colla, abito scuro, cravatta a disegni sottili, i capelli tra il biondo e il grigio, solleva gli occhi dal microscopio. «Flavivirus è una famiglia di virus, a cui appartengono epatite C, virus dengue, virus west nile. L’epatite C la conosciamo tutti: in Europa sono 8 milioni le persone infettate, 170 milioni nel mondo. L’infezione cronica può portare a cirrosi e carcinoma epatico con esito fatale». Virus dengue: «È analogo al virus di ebola. Ma se ebola, che ha una mortalità del 90 per cento, è un virus circoscritto a determinate zone del pianeta, dengue al contrario ha diffusione enorme. Ogni anno 500 mila casi di dengue finiscono in ospedale e il tasso di mortalità nei bambini è del 5 per cento». West nile: «In passato era un virus diffuso solo in aree geografiche intertropicali, ora è causa di nuove infezioni nelle zone temperate d’Europa e del Nord America. Nel ’99 una terribile epidemia ha sconvolto Manhattan, il cuore nobile di New York».
È su questa analisi precisa dei virus e delle loro potenzialità che si inserisce “Flavitherapeutics”, progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea con 1.9 milioni di euro e portato avanti proprio dal consorzio costituito da Novirio. Ma se a coordinare il gruppo di ricerca sono i chimici di Montpellier, l’idea nasce a Cagliari. Paolo La Colla ha scoperto le molecole attive su flavoivirus, le ha brevettate, e ha ceduto su licenza il brevetto a Novirio. «La stretta collaborazione avviata nel ’99 con il Cnr e le università di Montpellier e Cagliari, e il finanziamento della Comunità Europea - spiega Martin Bryant, vice presidente esecutivo di Novirio - ci ha consentito di accelerare lo sviluppo di nuovi antivirali per la terapia delle infezioni da virus dell’epatite C e da altri Flavivirus». Che Cagliari ha già testato sulle scimmie, primati più vicino all’uomo. Il risultato? Sorprendente. Il composto ha superato ogni test di tossicità. «Perché il nostro laboratorio è come un atelier di molecole: noi disegnamo molecole su misura e le analizziamo in modelli semplici. Quando identifichiamo una molecola che funziona, non uccide le cellule e arresta il processo del virus, il nostro obiettivo è raggiunto». Sorride, il professore. E dalla vetrata del suo studio guarda giù, nei laboratori, dove studiano i suoi ragazzi. Quanti sono? «In venticinque anni di lavoro l’Università mi ha dato due ricercatori. In tre anni di collaborazione con l’America, la Novirio di ricercatori ne ha assunto dieci». Che diventeranno venti non appena il professore firmerà il nuovo contratto. Quattro anni di lavoro, un milione e mezzo di dollari, dieci ricercatori sardi che potranno continuare a studiare in Sardegna. Senza scappare in America.
Francesca Figus
21/08/2000 Una patata transgenica
ci difenderà dall'epatite
di ANTONIO CIANCIULLO
ROMA - Per evitare colera, epatite B e dissenteria basterà mangiare una patata. Non sotto forma di purè o crocchette perché il prodotto va consumato crudo, ma comunque sempre meglio delle vecchie fialette, delle ampolline, delle siringhe.
Mentre la lotta per il controllo del mercato alimentare resta più che mai incerta, le industrie del biotech continuano a mietere successi in campo farmaceutico. La patata che vaccina è l'ultimo nato della famiglia dei miracoli transgenici. Non si tratta realmente di un evento a sorpresa, perché la gestazione della patata che cura era in stato avanzato. Tuttavia ieri, dai seminari di Erice organizzati al centro Ettore Majorana da Antonino Zichichi, è arrivato l'annuncio dell'inizio della sperimentazione sull'uomo.
Julian Ma, della Divisione di Immunologia del Guy's Hospital di Londra, ha spiegato che ormai i margini di sicurezza sono diventati sufficientemente alti da permettere ai primi volontari di vaccinarsi mangiando. Per trasformare le patate in vaccino gli scienziati si servono di un microorganismo (l'agrobatterio), responsabile del tumore nelle piante. Questo microorganismo fa però solo da "siringa", da veicolo per trasmettere il frammento di Dna che interessa.
In questo caso è lo spezzone di codice genetico che codifica la produzione di una proteina, quella che fa da campanello d'allarme nell'organismo umano scatenando il contrattacco per una specifica malattia, ad esempio il colera. La persona che viene vaccinata, pur non essendo realmente esposta al pericolo, comincia a produrre anticorpi e queste difese restano sempre potenzialmente disponibili in caso di una futura reale aggressione.
Questo naturalmente è il meccanismo che caratterizza tutti i tipi di vaccinazione, da quella che un tempo veniva praticata dai cinesi facendo annusare ai bambini pustole seccate di vaiolo, fino a quella transgenica. Il principio dell'esposizione volontaria al patogeno resta inalterato. Cambiano modalità e costi (che in futuro dovrebbero abbassarsi secondo le previsioni dei tecnici del settore). "E' un passo avanti che fa ben sperare", commentano a Federchimica. "Si sta aprendo una nuova frontiera destinata a far saltare la distinzione tra cibo, diagnosi e medicina. Ci saranno sempre più prodotti con caratteristiche miste: metà farmaci metà alimenti".
Gli esperimenti in questa direzione si moltiplicano. In un progetto che riguarda i paesi in via di sviluppo si sta studiando la possibilità di utilizzare la banana come vettore per le vaccinazioni. E negli States, dove produrre sigarette è diventata un' impresa ad alto rischio, si punta a riconvertire le distese di tabacco: la pianta non verrà più fumata ma trasformata in una fabbrica di proteine mirate a scopi terapeutici. Non basta. La nutraceutical, il settore a cavallo tra farmacia e drogheria, sfornerà un'intera ganmma di nuovi prodotti. Si va dai pomodori ricchi di antiossidanti all'olio d'oliva ritoccato per chi ha problemi cardiaci, dal riso supermivatiminazzato con aggiunta di ferro al latte che immunizza i bambini come quello materno.
(21 agosto 2000)
|